MUSICA E POESIA 2022. Omaggio a Pier Paolo Pasolini.

MUSICA E POESIA 2022

OMAGGIO A PIER PAOLO PASOLINI NEL CENTENARIO DELLA NASCITA

Musica e Poesia, la tradizionale rassegna che accosta la letteratura e la poesia a brani musicali, giunge nel 2022 alla XIV edizione. Attesa ed apprezzata, l’iniziativa è quest’anno dedicata a Pier Paolo Pasolini nella ricorrenza del centenario della nascita.

Otto incontri si terranno in Auditorium “Marco Tamburini” di Rovigo la domenica mattina, dal 2 ottobre al 27 novembre (esclusa domenica 30 ottobre) ed offriranno alla città l’opportunità di approfondire i molteplici aspetti, interessi e passioni di una grande personalità del Novecento, ancora oggi più che attuale, e tuttavia forse ancora poco nota.

Gli interventi di Natalia Periotto Gennari e il programma musicale elaborato in modo coerente dalla Kammermusik del Conservatorio “Francesco Venezze” di Rovigo, coordinato dal maestro Giuseppe Fagnocchi, costituiscono una qualificata offerta culturale. Musica e Poesia, inoltre, consente di far conoscere e di valorizzare i giovani talenti del Conservatorio “Venezze”, storica istituzione musicale e orgoglio cittadino, accompagnati dai loro docenti. La rassegna, dunque, rappresenta una interessante opportunità di arricchimento e di presa di coscienza personale e collettiva sul patrimonio culturale nonché la piacevole possibilità di godere di momenti musicali e di coesione sociale.

Musica e Poesia 2022 – Omaggio a Pier Paolo Pasolini  è promossa e realizzata grazie alla collaborazione di Fondazione Banca del Monte di Rovigo, che ha a fianco Fineco Bank, e del Conservatorio statale di musica “Francesco Venezze”.

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<La XIV edizione di “Musica e Poesia” è dedicata a Pier Paolo Pasolini, la cui levatura poetica ed intellettuale sembra ancora poco conosciuta. Se egli è più noto come regista, tanti, infatti, sono gli aspetti di una personalità eclettica su cui indagare e da cui trarre ispirazione. Su di lui è pesato quasi di più il suo vissuto (e la sua tragica fine) che l’indubbia capacità lungimirante, la sua critica acuta e intelligente e la sua versatilità in vari ambiti, dal giornalismo all’arte, con la poesia, la pittura, l’amore per la musica e la cultura musicale. Nemmeno vanno trascurate la critica sociale e l’analisi pungente, anche politica, e l’attenzione verso gli emarginati e i più deboli.

Con l’edizione 2022 della storica rassegna musicale, che ci risulta essere attesa e gradita dai concittadini, abbiamo voluto omaggiare Pasolini in occasione della ricorrenza del centenario della nascita. Il nostro interesse è portare alla luce quanto egli stesso aveva anticipato contro ogni conformismo, quasi profeticamente. Come spesso accade, i “visionari” rimangono inascoltati, salvo dare loro ragione il passare del tempo ed il verificarsi delle vicende.

La Fondazione Banca del Monte di Rovigo, che ha a cuore la formazione e l’educazione, specie delle giovani generazioni, ha rivolto nell’occasione un particolare invito alle scuole affinché studenti e docenti partecipino agli incontri domenicali programmati, che offrono approfondimenti sul tema oltre che piacevoli momenti musicali con protagonisti giovani talenti del Conservatorio rodigino.>

Giorgio Lazzarini, Presidente Fondazione Banca del Monte di Rovigo

 

<La rassegna Musica e Poesia è giunta alla sua XIV edizione e mantiene inalterate le peculiarità che la fanno apprezzare.

In particolare, secondo la visione illuminata di chi l’ha ideata, promuove una conoscenza storico-critica della musica nel suo dialogare, in questo caso, con la poesia, realizzando così un fenomeno artistico-culturale, il cui metodo dovrebbe diffondersi e coinvolgere anche le altre discipline del sapere.

Nello stesso tempo, determina una valorizzazione dei giovani talenti del Conservatorio in vista di un percorso certamente non facile, ma affascinante.

Quest’anno la rassegna è dedicata a Pier Paolo Pasolini nel centenario della nascita, una presenza nel panorama culturale che ha costituito una coscienza critica di ciò che siamo stati e di quello che siamo diventati.

La modernità avanza ed inghiotte l’autenticità popolare a motivo della società dei consumi. Oggi, paradossalmente, si fa riferimento ai “non luoghi” e alle “non cose”: reale ed irreale che si confondono.

Pasolini ha intuito la direzione del cambiamento perché dotato di un’intelligenza che capisce la realtà, la filtra con i valori, i disvalori e le tendenze del tempo, riuscendo in questo modo a prevedere il futuro.

La sua opera è ancora un cantiere aperto.

Ringraziamo vivamente la Fondazione Banca del Monte nella persona del Suo Presidente, Dottor Giorgio Lazzarini, il quale ha voluto in tutti i modi la rassegna, consapevole del fatto che è un fiore all’occhiello delle proposte culturali presenti in città.

Ringraziamo anche il Maestro Giuseppe Fagnocchi che, per conto del Conservatorio, l’ha curata con la consueta dedizione.>

Fiorenzo Scaranello, Presidente Conservatorio di Musica “Francesco Venezze”

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Il programma letterario 

“UNA DISPERATA VITALITÀ”

 “1922, anno immerso nel secolo, Bologna respirava un’aria di valzer”.

  Pier Paolo Pasolini, nato a Bologna il 5 marzo 1922, la I° domenica di Quaresima “nella stanza di una città felice”, morto all’idroscalo di Ostia la notte tra il I° e il 2 novembre 1975, domenica di Ognissanti: “C’era luna piena quando hanno ammazzato Pier Paolo. È stata lei la sua ultima compagna”. (Stele di M. Rosati, Idroscalo di Ostia).

È vissuto cinquantatré anni, nel centro del ‘900 italiano:

Ah, sacro Novecento, regione dell’anima

                 in cui l’Apocalisse è un vecchio evento! (PFR, B,I 620).

Durante la sua vita si sono verificate la marcia su Roma e il Fascismo, la guerra e la Resistenza, l’avvento della DC al potere, la ricostruzione, il boom economico e quello demografico, tre pontificati diversi nell’orientamento, gli anni del Sessantotto, l’inizio degli “anni di piombo”, in un’Italia con una storia politica non facile e compromessa dai contraccolpi della politica internazionale: nel 1956 il xx° Congresso del Pcus in URSS con la condanna di Stalin e l’invasione dell’Ungheria; il 22 novembre 1963 l’uccisione di Kennedy: “Mi sembra, il suo assassinio, il primo atto dell’Apocalisse” si trova scritto in un suo articolo del 24 novembre su “Paese sera”.

Cinquantatré anni di vita durante i quali Pasolini ha scritto più di ventimila cartelle, senza tener conto delle riscritture: come dire due pagine al giorno: “Non resisto all’invito di questa pagina bianca che sono riuscito a rendere simile al destino” (in appendice ad Atti Impuri, RR, I,172).

Da subito fu poeta – “un poeta di sette anni come Rimbaud” – e ora in quel paese del Friuli tra il mare e le Prealpi “c’è un cassapanca piena di manoscritti come quelli di tanti ragazzi italiani”. Poi, la prosa. Scrisse tutta la vita: poesia – sempre – racconti, romanzi, testi per il teatro, articoli per giornali, per riviste che fondò o a cui collaborò, pagine di critica letteraria e civile, sceneggiature, pubblicazioni di interesse critico e letterario, e poi lettere, lettere.

A fine novembre 2021 è stato pubblicato il suo epistolario integrale di più di mille pagine, l’ultimo grande epistolario del ‘900, che comprende testi manoscritti e dattiloscritti, con ripensamenti e correzioni di propria mano; un corpus di lettere perfettamente novecentesche a testimonianza di una biografia individuale e collettiva sullo sfondo di trasformazioni sociali precocemente intuite con istinto fulmineo.

Alla fine ci fu il cinema. Pasolini non nasce regista: il suo primo film Accattone uscì nel 1961 e lui aveva 39 anni; l’ultimo sarà nelle sale solo il I° gennaio del ’76, dopo la sua morte, postumo come, del resto, il romanzo Petrolio, una sorta di opera mondo a cui Pasolini lavorava alacremente dalla primavera del ’73.

Queste tappe cronologiche, tuttavia, sono soltanto di comodo.

Pasolini lavorò simultaneamente: tante sue opere di inchiostro sono confluite nei fotogrammi in bianco e nero dei suoi film- “sono un poeta da film” diceva di sé (EE, 198-226) – e altrettanto spesso le sue liriche hanno aperture da film: “come un film di Godard: solo/ in una macchina che corre…” recita l’incipit di Una disperata vitalità. Lavorava avidamente, assiduamente, in maniera febbrile congedando una silloge di poesie e nel contempo pensando a una nuova sceneggiatura. Solo qualche esempio: nel maggio del ’61 usciva nelle librerie La religione del mio tempo; in extremis “lavorando come un pazzo” con Accattone partecipa alla XXII mostra di Venezia dove riceve dure contestazioni; nel ’62 è pronto per la stampa un romanzo già pensato a Casarsa a cui mancava solo il titolo: Il sogno di una cosa; nel settembre si proietta la prima di Mamma Roma, dove l’Autore è aggredito da un gruppo di spettatori; ad Assisi, nell’ottobre del ’62 legge, in una notte, tutto di un fiato, Il Vangelo secondo Matteo: è una rivelazione, un’illuminazione: “Ho sentito subito Il bisogno di fare qualcosa: una energia terribile, quasi fisica, quasi manuale: era l’aumento di vitalità di cui parla Berenson…”.

All’inizio di marzo del ’63 nella sala del cinema Corso a Roma la “prima “della Ricotta viene interrotta con decreto di sequestro, ed alla fine di marzo Poesia in forma di rosa entra nelle librerie. Nell’estate del ’69, in aereo verso la Turchia per girare Medea, di colpo si precisa un’idea: uscire dalla sacralità del mito arcaico e tornare alla realtà con un racconto corale pieno di gioia di vivere, allegro, laico. E fu la regia del Decameron

Questo lavoro convulso, ossessivo, di continuo transito da un genere all’atro, intramezzato ora da sopralluoghi per ambientazioni di film (Palestina, Israele…), ora da viaggi (divenuti poi pagine di diari – L’odore dell’india -) fu altrettanto ostinatamente ostacolato da censure e condanne: 33 processi – a cominciare dal 1949 fino alla sua morte – mostrano come l’opera di Pasolini, anzi la sua personalità, fosse avvertita come fastidiosa, urticante, scomoda.

“I LUOGHI DELLA VITA”

Il Friuli 1941- 1950

Sangue mediterraneo,

                                 alta lingua romanza

                                 e cristiana radice” (USI, La scoperta di Marx, B, I,409)

“Non ho una città che si possa chiamare mia. Ho vissuto qua e là, un po’ in tutta Italia”.

Pasolini si riferisce ai diversi spostamenti nell’Italia del Nord “l’Emilia del mio destino” o “il Friuli dei miei Numi” dovuti alla carriera militare del padre, Carlo Alberto Pasolini, ufficiale di fanteria. C’è un componimento all’interno di Le ceneri di Gramsci intitolato L’umile Italia dove la nostalgia diventa affettuosa riflessione poetica:

“Borghi del settentrione, dove

                                          dal ragazzo con fierezza

                                          e allegria nasce il giovane,

                                          e vive la sua giovinezza

                                          da vero adulto,

                                                ……………………  ma è

                                          quell’infanzia solo gioconda

                                          onestà: egli nella sua fonda

                                         vita il mondo matura in sé”.                                              

Due furono tuttavia le terre di elezione, patria dell’anima.

Il Friuli, dove il vento soffia da Grado a Trieste, e a primavera fioriscono stupende le piante sui magredi, terra “di temporali e di primule”, di risorgive e di fonde dove i ragazzi d’estate per gioco si tuffano nudi.

Il Friuli, e, “al di qua da l’Aga” del Tagliamento che unisce e divide, Casarsa della Delizia – già un ossimoro nel nome – Casarsa degli Angelus, dei pioppi in fondo ai deserti campi di medica, degli umili alni lungo i primi contrafforti dei monti, e, nelle notti di festa, le strade percorse da frotte di ragazzi venuti in bicicletta.

Le primavere, le Pasque a Casarsa:

È primavera a Casarsa, la lampada

                        oscilla sulla piazza invasa dagli aliti

                        del vento nuovo e i fischi dei giovinetti

                        che passano allacciati per le strade

                        hanno un fresco sapore di erbe pasquali” (USI,L’Italia, B ,I, 387)

Casarsa, la terra di sua madre, “grembo mitico di una lingua divinamente arcaica e arcanamente letteraria, i cui suoni inalterati da secoli, integri ancora perché privi di traduzione scritta, vergini nella loro attonita arcaicità sono pervenuti praticamente intatti dal medioevo romanzo.”

La lingua materna come la lingua del Tagliamento, le cui acque verdi “corrono via imperturbate, tra le nitide rive di sassi, raccolte nel loro mormorio appartato, immerse nel fitto discorso sussurrato in una lingua straniera, non friulana, non veneta, non carnica – lingua senza confidenza – tutta presa dalla luce e dagli spazi”. (Romanzi e Racconti I°, Meridiani Mondadori,1306)

Come per la madeleine proustiana, le vocali aperte di questo parlare, le sibilanti che giungono a sfiorare il senso di un mondo sepolto, le parole tronche, i diminutivi riportano il profumo della terra, l’odore del fumo dei focolari, delle foglie umide d’autunno, dei tronchi scottati dal sole di luglio.

La lingua di Susanna Colussi, lingua materna dunque, che avvolge, conforta, protegge, e restituisce l’infanzia con la sua purezza in un paesaggio inviolato:

Stanco di giocare sull’erba

                                  nei giorni di febbraio

                                  mi sedevo qui, bagnato

                                  dal gelo dell’aria verde”. (Ciasarsa, B, II,1368)

Pasolini come un trovatore dell’alta Europa la recupera, anzi la ricrea – ricreando insieme il genio di una terra – e fissa nell’inchiostro una parlata vivente, finora solo suono, sottraendosi così alla soffocante ipoteca della scuola ermetica e opponendosi da autentico rivoluzionario agli obblighi di una lingua nazionale imposti dal Fascismo.

Il Friuli fiorisce, dunque, con una lingua “estranea ai dialetti italiani e piena di dolcezza italiana”, nelle liriche e nei primi romanzi d Pasolini, consegnati alle pagine dei Quaderni rossi – poi apparsi con il titolo di Atti impuri – che l’Autore portava sempre con sé nelle tasche della giacca, perché non dovevano ancora essere lette da nessuno le confessioni del i suoi primi turbamenti, le avvisaglie via via più insistite della sua diversità destinata con il tempo a diventare un’ossessione: “…quella cosa non mi dà pace un istante: il suo pensiero mi fa continuamente gemere e – fatto veramente colpevole – mi ripropone senza posa quel gesto di violenza contro me stesso: la mia mano che si alza per sopprimermi.” (Romàns,56, Corriere della Sera, 2016)

A Casarsa, in Friuli, sono tornati per riposare, vicino alla madre che più tardi lo raggiungerà, i suoi resti, ricomposti in una tomba per terra. Una lapide dice il nome e la data di nascita e di morte: 1922-75, quest’ultima singolarmente incompleta, quasi il segno, chi lo sa, di qualcosa di breve, di irrisolto. Un amico della sua terra, Andrea Zanzotto, poeta anche lui, teneramente lo accoglie:

“Sei rimasto là col tuo coraggio,

                      dove più delira l’Italia.

                      Ah, scusami, se ora non so darti

                      altro che questo borbottio, da vecchio ormai…

                      È solo un povero sforzo, tremore,

                      per ricucire, riconnettere in qualche modo

                     -per un momento solo, per salutarti –

                     quello che hanno fatto delle tue ossa e del tuo cuore”.

I LUOGHI DELLA VITA”

Roma 1950 – 1975

Arrivammo a Roma… Io vivevo come può vivere un condannato a          

          morte

          sempre con quel pensiero come una cosa addosso,

         -disonore, disoccupazione, miseria” (Poeta delle ceneri, B, II,2061).

L’insegnamento in una scuola privata “a 27 dollari al mese”, due autobus per arrivarci, da Rebibbia a Ciampino, in mezzo a vecchie donne e sporchi giovanotti ancora avviliti di sonno; ma accanto a un’umanità così miserabile che ogni storia ha sempre ignorato, si apre e resiste per Pasolini una convinzione: “ Io penso…” Un pensiero di riconoscenza per i libri che ha letto e porta in sé nella memoria, per gli affreschi di Piero della Francesca, di Pontormo, vividi nella sua mente, per le lezioni dei suoi maestri che ancora gli fanno virtualmente da guida – Longhi a Bologna, Contini con le sue lettere e i suoi consigli – e poi l’intuizione per un verso da scriversi e la lezione felicemente trovata; e se anche la vita lo ha diseredato,  sente tuttavia che la sua cultura lo salva, anzi lo fa ricco. Così, mentre l’autobus percorre le scarpate bruciate lungo la Tiburtina, dentro una eterna periferia di lotti tutti uguali assorbiti da un sole troppo caldo, il possedere una ricchezza di studio e di un “io che brucia di passione” nonostante:

il caos della città, nel bianco

                                       sole mattutino, stanca e oscura…”.

gli restituisce la fiducia in un mattino pieno di nuova luce:

che stupendo mattino! a nessun’altro

                                     uguale”. (La ricchezza, RMT, B, I,438)

Poi, i pomeriggi di studio nella stanza sotto il penitenziario di Rebibbia, in una borgata tutta calce e polverone, nella miseria “di un mondo non romano, non meridionale… non ancora proletario”; ore passate sui testi di Marx, di Gobetti, poi di Croce e Gramsci “che furono vivi nelle vive esperienze” a svelare un mondo che usciva dal mistero della non conoscenza e diventava luce, riga dopo riga, mentre “si moltiplicava per mille la gioia di conoscerlo”. E i pochi amici che andavano da lui nell’esilio di Rebibbia mentre scriveva pagine piene di fervore e di gratitudine lo

 

videro dentro una luce viva:

                       mite, violento rivoluzionario

                       nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva.” (CG, B, I, 254)

 

E con lui fioriva una nuova scrittura, quella dei romanzi romani, nati anch’essi nella periferia, lungo le strade che dopo l’ora di cena si aprivano alle calde notti d’estate.

“L’estate a Roma non finisce mai,” raccontava Pavese (Il compagno, XVII) tra stupore e rimpianto “quelle notti cortissime duravano sempre”.

L’Italia del dopoguerra sembra voler riscattare nelle pagine dei suoi narratori l’incubo degli insidiosi coprifuoco del regime e il terrore delle notti di guerra: si riappropria delle stagioni, delle estati felici, dell’ora senza tempo della notte dove torme di ragazzi vivono la loro nuova, arcaica vita:

“Da certe vecchie bicocche veniva giù verso la fermata una truppa di ragazzetti, andandosene chissà dove.

Coi grugni sporchi sotto i ciuffi, si tenevano abbracciati, parlando tutti smaniosi, senza guardare in faccia nessuno. Alcuni parlavano, parlavano, altri tacevano ridendo. E quelle faccette, sopra i collettini sozzi a colori, alla malandrina, erano l’immagine stessa della felicità: non guardavano niente, e andavano dritti verso dove dovevano andare, come un branco di caprette, furbi e senza pensieri” (Una vita violenta, Garzanti, 311). E Pasolini è con loro, lungo le volte oscure del viale che porta a Trastevere, attraverso ponte Garibaldi, e da ponte Sublicio fino al Gianicolo, con Tommasino, Lello, Ettore di Mamma Roma che vanno verso le Terme di Caracalla

con la testa ondulata, il giovanile

                                            colore dei maglioni, essi fendono

                                            la notte, in un carosello

                                            sconclusionato, invadono la notte,

                                            splendidi padroni della notte…” (RMT, B, I.451).

E, pur con il suo stupendo privilegio di pensare, Pasolini si sente parte di questa umanità – “vado anch’io verso le Terme di Caracalla” – frutto di una storia diversa dalla sua ma riconosciuta per identica passione di vita.

Oppure, perché questo mondo di emarginati che non possiede nemmeno “la coscienza della miseria, allegro, duro, senza nessuna fede” vive la stessa esclusione che l’Autore sta vivendo per la sua immedicabile diversità, e identiche sono le passioni per un mondo che è in colpa:

     “…Ah, essere diverso

                                         significa non essere innocente…”(RMT, B,I,449).                           

La condivisione con il mondo dei reietti e dei diseredati non fu una scelta politica, nemmeno un obbligo ideologico. Fu piuttosto una scelta di speranza ugualmente ossessa, “estetizzante, in me, in essi anarchica” come tenne a precisare in La religione del mio tempo, che la poesia soccorse e trascrisse.

 Una vita violenta non piacque alla critica di sinistra, nemmeno Ragazzi di vita, come non piacquero La ricotta e Accattone: “Personaggi senza redenzione – si disse – nessun progresso. Non si esce dal lunpen Proletariat che Marx aborriva”.

Tuttavia l’autentico interesse per un mondo che da clandestino era costretto a vivere indicarono a Pasolini l’unico strumento di redenzione: la lingua.

Perciò ragazzi tutti uguali nei loro stracci colorati, nei tempi della loro vita, tra il furto e il divertimento plebeo, riconoscibili solo per un soprannome – il Ricetto, il Cagone – acquistarono pagina dopo pagina il loro nome e cognome, e Tommasino, dapprima la Spia nel fango secco di Pietralata, divenne Tommaso Puzzilli, via dei Crispolti 3, InaCase, e furono conosciuti dal loro parlare che finalmente fu scritto e che Pasolini diligentemente registrava su un block-notes durante le notti in loro compagnia, nelle osterie, sulla via Appia, sulla Tuscolana, per poi trascriverlo in una “lingua regredita”, forse ancora approssimativa, ma autentica  per l’affettuosa cura di filologo – “un’imperterrita dichiarazione d’amore”(Contini) – la  stessa che l’aveva guidato nella ricreazione dell’idioma del Friuli, e comunque in grado di dare un significato a quelle brevi esistenze.

Questa non fu operazione di poco momento: “La mimesis dialettale contaminata con la prosa letteraria è il più rischioso, massacrante, esasperante lavoro letterario che si possa affrontare” registrava Pasolini costretto tra l’altro dalla censura a un defatigante intervento di ripulitura del lessico dalle parole volgari e oscene.

Ma il vero problema non è qui. La lingua che Pasolini aveva dato ai suoi ragazzi non è solo gergo: con quel linguaggio, una classe ai margini, da sempre esclusa, in una Roma “che non era Roma” prendeva cittadinanza nelle pagine della letteratura nazionale, esprimeva bisogni ed esigenze, mostrava le proprie inclinazioni, magari anche piccole speranze, e il proprio modo di vivere e nel fianco di una morale accettata e condivisa inseriva un altro tipo di morale, di cultura, di vita.

Tutto ciò non poteva piacere alla critica ufficiale, a qualunque estrazione appartenesse, che condannandone le vite irrisolte indicava il loro autore come pericoloso.

 

Roma domenica 2 novembre, incredula, sgomenta, venne a sapere dai quotidiani del mattino che Pier Paolo Pasolini era stato assassinato quella notte da un ragazzo di borgata sul litorale di Ostia.

“SCANDALO”

“Noi staremo offerti sulla croce,

                 per testimoniare lo scandalo.” (USI, B, I,377)

Il 23 di maggio del 1832 Leopardi scriveva al signor Louis de Sinner: “È soltanto per effetto della viltà degli uomini che si è voluto considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze personali… Prima di morire protesterò contro questa invenzione della debolezza e della volgarità(“L’ Invention de la faiblesse e de la vulgaritè” nella lettera scritta in francese)  e pregherò i miei lettori di dedicarsi a demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare la mia malattia”. Si deve pensare che avesse ragione dal momento che ancora la critica di Croce parlava per Leopardi di “vita strozzata” suggerendo una inevitabile compromissione tra la vita e le sue opere

Di qui, forse, la frequenza del simbolo nelle poetiche dell’ultimo ‘800 e del ‘900, a coprire la corrispondenza tra dati personali ed espressioni poetiche. Il simbolo, più dell’analogia, fissa e nasconde, è per natura polisemico, va decrittato (con documenti), ma lascia intatta, anzi potenzia la parola poetica, perché le dà allusività, la rende arcana, misteriosa e, per questo, universale.

Con Pasolini, le cose cambiano. La sua è una scrittura deliberatamente autobiografica, probabilmente la più autobiografica di tutto il ‘900. Una scrittura elegiaca, come lui la chiama riappropriandosi d’autorità di un termine antico che connotava la lirica personale effusiva, dolorosa dei classici greci e romani.                    La “ferita sempre aperta” e che per lungo tempo, dalla prima adolescenza, ha cercato di trattare come se non fosse cosa sua, è cresciuta con lui, ha preteso posto e parola nella sua scrittura. Dapprima fu una confessione velata, incrociata tra le figure del mito – Narciso, o le forme arcaiche di una natura amica – e le immagini dell’innografia religiosa nelle pagine calde de L’Usignolo della chiesa cattolica, che poteva far pensare alla compiacenza narcisistica di un’anima poetica consapevolmente attardata al limite di un’infanzia felice.

Ma il 10 febbraio 1950 arrivò a Silvana Mauri – “la mia unica confidenza” – una lettera da Roma: “Volevo dirti che non mi è né mi sarà possibile parlare con pudore di me: mi sarà invece necessario mettermi alla gogna perché non voglio più ingannare nessuno… Basta con le mezze parole, bisogna affrontare lo scandalo mi pare dicesse San Paolo… Io ho sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me.”

Una attrazione “dolcissima, violentissima” nata nell’infanzia – a tre anni, ricorda – e rimasta acquattata, “cieca e uguale come un fossile” si rivelò finalmente prendendo nome e chiarezza.

L’ omosessualità, dunque, riconosciuta, vissuta, e più che altro subita. Tutta la personalità di Pasolini ne risulta compromessa. Questa è la ferita di cui parla ossessivamente nei suoi scritti; la fatica di accettarla e la coazione a viverla -“un naturale bisogno di farmi male”- fanno di lui un soggetto  spaccato in due, quello che da alcuni psicoanalisti viene chiamato “un io diviso”, che di necessità continua a  tagliare il mondo in cui si riflette in due metà che sempre si contrappongono, e rimbalzando si dissociano, generando incessantemente ossimori, contrapposizioni, contraddizioni fino all’abiura. Per capire Pasolini nella sua anima e nella sua opera, allora, bisogna necessariamente partire dalla confessione di questo antico male, dalla frattura tragica nel suo io a cui la poesia dà di volta in volta nomi diversi ma che non ha mai sconfessato:

La diversità che mi fece stupendo

                       che colorò di tinte disperate

                       una vita non mia…”(Poesie disperse, B,II, 2273)

Fu militante del P.C ed espulso per “indegnità morale”. Ventisei anni più tardi, il 4 novembre 1975 – due giorni dopo la sua morte – al congresso del Partito Radicale cui avrebbe dovuto partecipare si lesse il testo del suo intervento in cui egli dichiarava ancora di essere “un marxista che vota per il Pci” (LL,185).

Affermò “non conosco/ il vostro Dio, io sono ateo” (PFR. B, I,636) ma in una lettera lasciò scritto “Io più che laico, irreligioso, sono continuamente occupato da una mia interminabile crisi religiosa”. In ogni caso parlerebbero al contrario le calde mistiche liriche dell’Usignolo della Chiesa cattolica piene del profumo antico dei rosari recitati nelle sere di maggio.

Negli stessi anni in cui i suoi romanzi romani venivano censurati, come abbiamo detto, e La ricotta veniva accusata di vilipendio della religione, il Vangelo secondo Matteo otteneva tre candidature al premio Oscar, il Leone d’argento alla mostra cinematografica di Venezia, tre nastri d’argento e il premio OCIC (Office Catholique International du Cinéma).

“Non sono qualunquista: credo nei partiti” si difese in un’intervista del 1971 ad Enzo Biagi, precisando “la mia è una forma di anarchia apocalittica perché vedo il mondo più brutto, ma per me il Parlamento è sacrosanto”.

Nell’ottobre del ’75 Ernesto Ferrero, inviato da Einaudi, incontrò Pasolini alla Buchmesse di Francoforte, due settimane prima che lo ammazzassero: “Si capiva che poteva essere fraterno e irraggiungibile, timido e aggressivo, umile ed egolatrico. Era un marxista segnato dall’educazione cattolica, un mistico sconfitto dalla propria sensualità…”.

Fino ad ora questi fatti vanno letti come segnali contrastanti, quasi tropismi divergenti, di un modo di fare della persona.

Tuttavia, è la poesia il luogo dove maggiormente si addensano le sue contraddizioni al punto che possiamo dire che la contraddizione è la cifra della sua poesia: nel lessico, nella sintassi, all’interno di uno stesso endecasillabo.

Com’era nuovo nel sole Monteverde Vecchio!” ma, all’annuncio della sentenza di condanna “Il lume del mattino fu lume della sera”. (Récit, CG, B,I,237)

“L’umile Italia” del titolo, così vagheggiata nel cuore, percorsa più da vicino si sdoppia fino a negarsi: “Questa è l’Italia e/ non è questa l’Italia”. (CG, 209).

L’ossessiva divaricazione di pensieri, di immagini, travolge il lessico che si orienta ad una scelta continuamente espressionistica: la sua visione della realtà è apocalittica, le sue passioni sono ossessioni, le fedi incubi, i doveri diventano dogmi.

Il mondo gli è nemico in una perenne contrapposizione:

                                           “Io, cupo d’amore, e, intorno, il coro

                                            dei lieti, a cui la realtà è amica” (PFR, B, I,634).

Entrano in modo perentorio nella sua confessione lirica (“perché una poesia di confessione è sempre violenta” disse di lui Ungaretti) le categorie guida del suo vivere e della sua scrittura:

Sesso, morte, passione politica

                                            sono i semplici oggetti cui io do

                                            il mio cuore elegiaco…” (PFR, B, I,637))

Si dice ossesso, “narcissico”, al limite dell’eccesso quasi a sollecitare il limite opposto. La sua aggettivazione, anche quella che tutti usiamo – puro, sacro onesto – scarta il significato corrente del termine per cercarne uno ulteriore, o primitivo, archetipico, creando in questo modo una continua dissonanza, in esempi continui

“…nel suo grembo impuro come giglio.”

Puro per Pasolini non significa casto: porta con sé l’idea che l’Autore ha della sessualità – quella degli altri, dei ragazzi, non la propria, comunque – immune da ogni atto disonesto, estranea a qualunque pornografia:

perché senza tragedia il loro desiderio

                    perché il loro sesso integro fresco…”(La realtà, PFR, B,I, 636)

E l’”endecasillabo d’avorio”, il verso per eccellenza della letteratura dell’alta Europa, il verso illustre della Commedia, invece di concludere il pensiero alla fine della terzina si apre alla terzina seguente creando una rincorsa tra strofa e strofa a inseguire il significato. Perché in sostanza è questo il problema: inseguire la realtà, possedere la realtà per non esserne escluso. E la contraddizione diventa strumento di questa ricerca, che l’autore rivendica come un connotato della sua vita e della sua poetica:

“ma c’è una razza che non accetta gli alibi

                    una razza che non si esime un giorno, un’ora,

                    dal dovere della presenza invasata,

                    della contraddizione in cui la vita non concede

                    mai adempimento alcuno…” (PFR, B, I, 629).

I critici hanno chiamato ossimoro questa specificità della scrittura di Pasolini, o, alla maniera della retorica classica, sineciosi, lasciandone adombrare una specie di immobilità, quasi una estetizzante sclerosi dell’ispirazione. Pasolini la chiama scandalo, una parola evangelica, vox media – di nuovo un ossimoro – che indica in greco la pietra di fondamento (solida, insostituibile) e, insieme, la pietra di inciampo, a ostacolare una spinta in avanti destinata comunque a   compiersi.

Allora non può stupire che molta scrittura di Pasolini nasca lungo la strada: sia la strada bianca del Friuli, che percorre in bicicletta lungo il Tagliamento a cercare i ragazzi, sia le strade a Roma tra un autobus e l’altro, o durante un viaggio in auto di ritorno dall’aeroporto, o sull’aereo verso la Turchia dove lo aspettano le riprese di Medea… La sua scrittura si forma alla stessa maniera in cui nascevano i dialoghi di Platone: strada facendo, in Atene, o lungo la via che conduceva al Pireo, si discuteva della giustizia, del significato della bellezza, della natura dell’amore. “Gran parte delle mie opere sono nate in viaggio” annota in ***

Di notte, a Roma, fermo nella sua auto lungo una strada di periferia, mentre il treno passa, al ritmo metallico delle ruote sui binari, Pasolini sente nascere un segmento di verso:

” la vita nei secoli …”

che poi ritorna martellante a scandire il ritmo, insieme, del treno e della consumazione di un incontro omoerotico:

“la vita nei secoli…

          A questo alludeva allora

                               dunque – ieri sera…

                                rattrappito nel breve segmento del suo gemito –

                               quel treno lontano… (PFR; B, I,737)

Tuttavia, la contraddizione più profonda, addirittura mortale, Pasolini la visse in sé stesso, nel proprio corpo:

                                  “Che io arriverò alla fine senza

                                   aver fatto, nella mia vita

                                   la prova essenziale, l’esperienza

 

                                  che accomuna gli uomini, e dà loro

                                  un’idea così dolcemente definita

                                  di fraternità almeno negli atti d’amore!

 

                                   Morirò senza aver conosciuto il profondo

                                   senso di essere uomo, nato ad una sola

                                  vita, cui nulla, nell’eterno, corrisponde.” (PFR, B, I, 640)

Da qui nasce la sua poesia, questo il suo scandalo. L’omosessualità, una ferita quotidiana immedicabile ossessa, fu la sorgente della sua lirica, anch’essa tormentata, umanissima, senza redenzione.

Per questo non si può leggere né capire Pasolini se non si tiene conto di questa sua condizione che pur avendo generato continue contraddizioni rimase, paradossalmente, sempre uguale a sé stessa: “La mia malattia consiste nel non mutare; mi capisci, vero?” (Ll. 03, 1949)

Anni dopo, riordinando alcune sue poesie – pubblicate solo dopo la sua morte – nella prima lirica della silloge Roma 1950, sottotitolata Diario, riprendeva questo pensiero:

Adulto? Mai…

Io non posso che restare fedele

                            alla stupenda monotonia del mistero.

                            Pari, sempre pari con l’inespresso,

                            all’origine di quello che sono”.

“LE LUCCIOLE”

“Vola, o lucciola, sopra i fossi tremanti

          di canti insonni sulla polvere dei borghi!” (Usi, B, I,387)

Pasolini è prima di tutto un poeta e, quindi, anche quando scrive articoli per i quotidiani, scrive come un poeta. Cioè descrive e definisce il mondo per scelte immaginifiche. Per lui l’Italia –L’umile Italia di dantesca memoria – è il paese delle rondini:

“Ah, rondini, umilissima voce

                                        dell’umile Italia” (CG, B, I,207)).

Nello stesso modo le realtà ultime – la nascita e la morte – vengono annunciate dalla voce della natura:

Grilli, cantate la mia morte!

                                   Cantate alto per i campi

                                   la mia morte! (MG, B, I, 31)

Quindi nell’ articolo del Corriere della Sera (I° febbraio 1975) le lucciole sono le lucciole, quei piccolissimi punti luminosi che con misteriosa intermittenza punteggiano le calde notti d’estate.

E contemporaneamente sono un simbolo. L’articolo, difatti, si intitola Il vuoto del potere in Italia; le lucciole sono una metafora di questo intervenuto vuoto di potere, e la loro scomparsa è l’annuncio cosmico di un’era diversa.

“Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo alcuni anni le lucciole non c’erano più…”

Quel qualcosa che è accaduto una decina di anni fa è il Nuovo Fascismo; questo nuovo potere, questo neocapitalismo, è invisibile, non ha testa, non ha centro, ma agisce su vita e coscienze, trasforma il popolo in massa, il cittadino in consumatore, “il monoteismo delle società religiose che avevano il loro vertice in Dio in un politeismo fatto di una quantità di dei, cioè di una quantità di oggetti”. È una catastrofe perché scalza e sovverte dalla base la dimensione dell’uomo, quella che da secoli era stata identificata come cultura umanistica.

Nei versi di Il pianto della scavatrice, Pasolini si riconobbe:

mite, violento rivoluzionario

                               nel cuore e nella lingua…”(B,I,254)

Noi gli riconosciamo la mitezza del cuore – abbiamo letto le sue liriche – ma innegabile è la violenza della lingua. “Non è vero che detestavi la violenza. Con il cervello la condannavi, ma con l’anima la invocavi” gli scriveva Oriana Fallaci in una lettera cruda e dolorosissima a pochi giorni dalla sua morte. Tuttavia, nonostante certe sue posizioni violentemente provocatorie “Ma De Gasperi politicamente non era nessuno”(LL,19/09/75) e unilaterali come la condanna della classe dirigente di allora ignorando le colpe collettive della società, gli articoli di Pasolini sul Corriere della Sera – questo è un ulteriore ossimoro di un intellettuale che si definisce di sinistra,  corsaro, luterano, e scrive su un quotidiano liberale  – sono un richiamo insistito a riappropriarsi delle cose dell’uomo, in una parola il suo ambiente  – la lingua, la storia, la cultura – che per l’autore vive solo in connessione con l’uomo, ne costituisce il patrimonio, ha da sempre un valore etico.

Pasolini, comunque, corsaro e luterano non lo è diventato di colpo. Proprio nella nota introduttiva degli Scritti corsari per il Corriere invitava il lettore a recuperare con “fervore filologico” le sue opere precedenti, anche gli scritti in italo-friulano di La nuova gioventù che costituiscono un nesso necessario alla comprensione anche se “non sono scritti corsari o lo sono molto di più.”

Quei ragazzi “al di qua dell’Aga” del Tagliamento vivono nelle liriche di Pasolini in un tempo fermo scandito dai Mattutini, dai Rosari di maggio, dalle domeniche delle Palme: vivono la vita dei padri che in loro si rinnova identica, nelle fattezze dei visi, nel colore dei capelli, una vita senza destino: “Dove sono volati gli anni che dividono il corpo di questi ragazzi da quello dei loro padri…?Tu, Domenico figlio di Stefano, corpo di tuo padre, labbra di tuo padre, petto di tuo padre, che morte risuona nel tuo canto, che vita nel tuo quieto non esistere?” (Usi,Li Albis, B,I, 289)

I luoghi che circondano questa gioventù sono da sempre i luoghi della loro vita, testimoni nell’eterno ritorno delle stagioni in una esistenza che si ripete nuova e sempre uguale, nella fatica di una miseria conosciuta e perciò accettata, nella confortante perennità degli orizzonti, nell’identica scansione dei nomi:

E domani si vedrà solo un filo di neve

                          luccicare per le prodaie.

                         Si vedranno Versuta, Casarsa, San Giovanni

                         in fondo ai campi vuoti

                         in fondo alle rogge celesti

                        sotto il sole leggero.” (MG,Suite friulana, III).

Il Friuli non è solo un luogo di ricordo, magico, sacro. Questa terra nella sua povertà ha messo in contatto Pasolini con il pesante dopoguerra di un paese di confine a cui l’Autore ha cercato con i propri mezzi di rispondere: con la creazione di una scuola, prima a Versuta e poi, per i bombardamenti, in un casolare in campagna, con gli articoli per la sezione del P.C. di Udine, e ancora scrivendo: Il sogno di una cosa è stato pensato e composto in Friuli anche se è stato pubblicato solo nel ’62. Il Friuli dove nelle veglie invernali si racconta ancora di Attila e dei Turchi è anche quello delle lotte perché venga rispettato il Lodo De Gasperi:

“Fu così che io seppi ch’erano braccianti,

                e che dunque c’erano i padroni.

                Fui dalla parte dei braccianti, e lessi Marx.”(Poeta delle ceneri, B,II,2062)
Il Friuli è anche terra di emigrazione, verso Est, la Jugoslavia, un Paese a sua volta stremato dalla guerra, o verso la Svizzera  e di un ritorno falsamente festoso, per poi  risalire sul treno e tornare ad emigrare: “La locomotiva sorda ai loro canti puntava su Pordenone, e sull’alta Italia, verso il Nord; ansava in direzione di un 1948 nero di antracite, di un 1949 rovesciato su una distesa fuligginosa di gru e di guglie, di un 1950 che l’esplosione di Charleroi copre di silenzio.”( Davide in Belgio, PAESE,211)

Questo è per Pasolini l’ambiente, non necessariamente solo il suo ambiente (era friulano per parte di madre), ma quello che egli intende per ambiente: un valore storico, sociale, culturale, geografico, umano che la tradizione ci ha consegnato come un patrimonio di identità.

Dopo un sopralluogo per l’ambientazione di Il Vangelo secondo Matteo, Pasolini aveva scartato Israele perché –  nella testimonianza del dottor Caruso della Pro Civitate Christiana –  “c’è sempre qualcosa di troppo moderno e industriale”, non aveva considerato la Giordania dove “le facce degli arabi sono precristiane…su di esse non è passata neanche di lontano la predicazione di Cristo”; preferì invece, con un’intuizione estetica che in lui era sempre spirituale, l’Italia meridionale, le terre della Basilicata, perché scabre, taglienti, come altrettanto scabra e tagliente era la parola del Cristo di Matteo “mite nel cuore, ma non nella ragione” (Il Giorno, 6 marzo 1963). Quella era la geografia storica del Vangelo.

Nello stesso modo, trasferendo in pellicola l’Edipo re di Sofocle, Pasolini, da poeta e uomo, si confrontava dolorosamente con l’abisso che da sempre incombe su l’uomo occidentale, quando si dispone a vivere la passione della conoscenza di sé. Allora la strada che da Corinto porta a Delfi, dove Edipo cammina, in pena, in inquieta diffidenza, simbolicamente prende la forma dei sentieri rossastri, polverosi nel deserto del Maghreb.

Ugualmente, in quella sovrapposizione, abituale in Pasolini, tra mito e autobiografia, soltanto Bologna, la “città piena di portici”, poteva accogliere e acconsentire a un Edipo ormai stanco, che tutto di sé aveva conosciuto e che ritornava nella città dove era nato perché “la vita finisce dove comincia” (Pasolini, Edipo re, 1967).

In una lettera a Livio Garzanti il 15 novembre del 1954, a puntualizzare lo schema di Ragazzi di vita e il suo valore emblematico all’interno degli anni cinquanta, Pasolini scrive: “Il Riccetto nel primo capitolo del romanzo andando in barca con alcuni amici sul Tevere – regazzino, ma già esperto di tutte le bassezze, ladro, senza scrupoli, ecc. – a un certo momento si getta a nuoto per salvare una rondine che sta affogando sotto Ponte Sisto. Nell’ultimo capitolo affoga nell’Aniene un ragazzetto, Genesio, e il Riccetto, già quasi giovanotto, non muove un dito per salvarlo. Tra questi due momenti si svolge tutto l’arco narrativo…”. Il Ricetto diventa grande in un ambiente a sua volta mutato.

Masse di sottoproletariato, già una volta sfrattate da Roma, vengono deportate in mezzo alla campagna in quartieri tutti uguali:
“Ma ecco che un giorno cominciarono a impiastrare di palazzi tutto lì intorno sulla Tiburtina…e le case cominciarono a spuntare, sui prati, sui montarozzi. Avevano forme strane, coi tetti a punta, terrazzette, abbaini, con finestrelle rotonde e ovali; la gente cominciava a chiamare quei caseggiati Alice nel Paese delle Meraviglie, Villaggio Fatato, o Gerusalemme: e tutti ci ridevano, ma tutti quelli che abitavano nelle borgate in quei paraggi cominciarono a pensare: “Aoooh, finalmente anche a me mi danno un harem!”. (Una vita violenta, pag.211). Con il ripetersi ossessivo di uno stesso motivo architettonico, una stessa casa ripetuta 5, 6, 10 volte nascevano il Quadraro, Tuscolano III, Donna Olimpia, il Portonaccio, e cresceva lo straniamento in quei derelitti trapiantati in una realtà estranea al loro vissuto a cui cercavano di adattarsi lusingati da un modo di vivere consumistico in cui la loro povertà diventava motivo di vergogna e essi passavano da “un’età eroica ed amorale ad una già immorale e prosaica” (Ll. novembre 1954).

La poesia secondo il suo statuto traduce simbolicamente nelle cose la violenza creata dall’uomo. E le cose si ammalano “Sunt lacrimae rerum”.   Può essere lo scarico di varecchina che butta nell’Aniene, o l’erba bruciata e mista a fango delle rive, o ancora l’animale che non ha colpa come il cuccioletto rognoso trascinato per il collo dal laccio dell’accalappiacani tra un nugolo di ragazzini divertiti: “E cercava di nascondere la sua vergogna e la sua mortificazione, prendendo un’aria quasi allegra: pareva che sorridesse alla gente che lo guardava, per far vedere che non gli succedeva niente di brutto, ma che anzi lui era quasi contento…”( Una vita violenta, pag. 105). Spesso i protagonisti dei romanzi portano addirittura nel nome il segno della malattia o di un vizio dell’anima –  il Cagone, Piattoletta, Spia; Lello balla il charleston “tutto acchittato e malandro” viene travolto da un tram alla fine dello stesso capitolo e si trascina grigio, zozzo “con nella pelle qualcosa che gli trasudava, come un unto, da tanto tempo ormai gli era penetrata dentro, come a quasi tutti gli storpi, gli sciancati colleghi suoi” (Una vita violenta, pag.249) fino alla fine del romanzo. Tommasino, Stracci, Accattone muoiono di questa patologia del personaggio che incarna in sé stesso la sofferenza di un ambiente devastato dalla violenza dell’uomo.

[Natalia Periotto Gennari]

 Il programma musicale

 La proposta di dedicare la rassegna degli otto eventi di Musica e Poesia 2022 a Pier Paolo Pasolini nel centenario della nascita ha costituito una preziosa occasione per proporre non solamente le musiche legate alla filmografia pasoliniana ma anche per svolgere, insieme agli studenti del Conservatorio Francesco Venezze di Rovigo che saranno i principali protagonisti dei concerti, un lavoro di ricerca sui testi letterari nei quali Pasolini affronta tematiche musicali, ad iniziare dal saggio Studi sullo stile di Bach, scritto con grande acutezza e puntualità di conoscenze musicali poco più che ventenne, e sulla sua ampia e variegata collezione discografica.

Per dare maggiore varietà agli impaginati alcuni eventi sono stati approfonditamente dedicati alle dirette interazioni tra Pasolini e la musica, mentre in altri il trait d’union tra Pasolini e la musica appare come un conciso punto d’incontro, decisamente più lieve a livello biografico, ma non nella ricerca dei comuni valori e delle riflessioni sulle condizioni dell’umanità, specie degli ultimi, ai quali Pasolini dedicò sempre e appassionatamente le sue principali attenzioni.

***

È questo il caso del primo concerto, in programma domenica 2 ottobre, in cui il senso di disorientamento, peregrinazione e di persecuzione prende avvio dal verso del Libro dell’Esodo “Dio fece quindi piegare il popolo per la via del deserto” da cui si dipanano sia il romanzo di Pasolini Teorema, sia il programma di musica perseguitata Città ignote: tre luoghi di internamento: Ferramonti di Tarsia, Isola di Man e Shanghai. Esso dà titolo all’appuntamento rappresentando al tempo stesso il tema dell’attuale tappa del progetto di ricerca pluriannuale del Conservatorio con composizioni strumentali e vocali da camera di compositori ebrei le cui vite furono duramente toccate, quando non spezzate, dalle persecuzioni novecentesche. Saranno proposti lavori di Kurt Sonnenfeld (di cui il Conservatorio ha acquisito l’importante fondo musicale), Hans Gál, Egon Wellesz e Wilhelm Petersen interpretate da Su Chenwei (soprano), Ma Taizhe (baritono), Daniela Nuzzoli (mezzosoprano e violino), Silvia Raise (violino), Caterina Colelli (violoncello), Beatrice Bruscagin e Giuseppe Fagnocchi (pianoforte) con introduzione a cura di Raffaele Deluca, musicologo e bibliotecario considerato tra i principali cultori dei repertori perseguitati a livello internazionale.

Domenica 9 ottobre il programma dal titolo Canto d’amore e canto sacro nelle opere di Johann Sebastian Bach sarà invece dedicato al poco noto saggio pasoliniano Studi sullo stile di Bach. Si tratta di un lavoro risalente agli anni 1944 e 1945, presumibilmente non completato, nel quale egli esamina i Sei Solo violinistici ai quali dedica riflessioni sui “rapporti storici ed ideali tra musica e poesia” e sul fascino dei repertori bachiani nel loro conflitto barocco tra “perfezione e crisi”, “sentimento e discorso”, “canto d’amore e canto sacro”. Prosegue Pasolini: “È da questo fondersi e trascolorire vicendevole delle due voci, che nasce qualcosa di altamente commosso e accorato, un superamento del dramma in una catarsi continua”. Il concerto-reading vivrà del continuo contrappunto tra alcuni movimenti dalle Sonate e Partite di Bach e alcuni passi dello studio di Pasolini ad essi dedicati, dimostrazione concreta del primo e fondamentale incontro spirituale “a distanza” tra i due grandi artisti. Si alterneranno al violino barocco Alice Bettiol, Isacco Burchietti, Dario Palmisano, Michele Saracino e Antonella Solimine con la voce recitante di Elena Ricciardello.

Il secondo appuntamento bachiano, Pasolini e Cristo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, in programma domenica 16 ottobre, si nutre dell’anelito all’incontro con Cristo. Da un lato campeggia il Soli Deo Gloria, solenne motto compositivo bachiano, dall’altro la pasoliniana figura del Cristo che si rispecchia nella sua lettura del Vangelo secondo Matteo, ma anche nelle figure degli “ultimi” di altri film, tra cui Accattone, che attinge esso pure da alcuni tra i più drammatici temi di Bach. Questo perché, dichiara Pasolini nel 1962, “quando pensavo genericamente di fare un film, pensavo che non avrei potuto commentarlo altrimenti che con la musica di Bach; un po’ perché è l’autore che amo di più; e un po’ perché per me la musica di Bach è la musica a sé, la musica in assoluto”.

Di peculiare originalità la proposta di esecuzione delle arie e dei corali di Bach tratti dalle monumentali Matthäus-Passion e Johannes-Passion in versione cameristica grazie alle eccellenti trascrizioni di David Vicentini, docente al Venezze, per ensemble di tre violoncelli e pianoforte. Anzi la Kammermusik, nella sua intimità, è ancor più consona e coerente al clima meditativo delle elevate questioni della teologia della croce, del Volto del Cristo, che “si rivela nel tempo attuale negli ultimi”, come scrive negli anni Sessanta l’allora giovane teologo Joseph Ratzinger straordinariamente in linea con il pensiero pasoliniano. Si alterneranno nelle esecuzioni i violoncellisti Michele Ballo Bertin, Elisa Fassetta, Maria Sole Feliciello, Matilde Pasquin e Nadia Ranallo e i pianisti Stefano Rizzato e Pietro Vaccari.

Pasolini riconosce nelle sue lettere l’importanza del classicisimo strumentale, rappresentato nel programma Schubert e i Maestri del Novecento italiano di domenica 23 ottobre dagli ultimi due movimenti del Trio in si bemolle maggiore op. 99 di Franz Schubert, che costituisce una struttura fondante anche della storia della musica più recente. Per questo esso viene proposto associato ai Maestri italiani del XX secolo, alcuni dei quali presenti nel catalogo dei dischi di Pasolini, chiudendo il cerchio della formazione cameristica per antonomasia, ossia il trio violino-violoncello-pianoforte, giungendo ai nostri giorni con la prima esecuzione del neoclassico Tratti. Trio per violino, violoncello e pianoforte di Andreina Costantini, dal 2008 docente di Composizione al Venezze. Provocazioni, denunce contro la guerra, quadri naturali e culturali – ossia alcuni tra i temi prediletti da Pasolini – campeggiano invece a chiare lettere nelle brevi composizioni di Sylvano Bussotti e Marcello Panni, Luciano Berio e Paolo Castaldi. Interpreti del concerto Domenico Nicola Percetti (violino), Caterina Colelli e Luca Dondi (violoncello), Beatrice Bruscagin e Giuseppe Fagnocchi (pianoforte) e il VenezzeAlterEnsemble coordinato da Anna Bellagamba e formato per l’occasione da Beatrice Bruscagin, Fabiana Sommariva e Alberto Zongaro.

Antico e attuale: lirica greca, Vangelo, Bach e Gaslini è il tema del programma di domenica 6 novembre. Ancora una volta la solidità di Bach con due composizioni presenti nella discoteca pasoliniana, ossia la Sinfonia in mi maggiore dalla Cantata BWV 29 e il Concerto in mi maggiore per violino, archi e b.c. BWV 1042 il cui movimento centrale è altresì scelto da Pasolini nel suo Vangelo secondo Matteo (1964) a simbolo del dolore di Maria nel silenzio, in contrappunto con alcune composizioni contenute in un LP monografico dedicato a Giorgio Gaslini, edito negli anni Sessanta da Durium e appartenente anch’esso alla ricca collezione di Pasolini.

Noto soprattutto come jazzista Gaslini fu in realtà un musicista estremamente poliedrico di solida formazione con ben cinque diplomi conseguiti al Conservatorio di Milano: ciò si evidenzia nelle interessanti incursioni nelle Kammermusiken che si snodano dalle liriche greche di Saffo al testo evangelico del Magnificat per giungere a strutture musicali dodecafoniche (Cronache seriali) nelle quali si unisce la musica concreta con il risuonare dei tasti della macchina da scrivere. Formano il ricco ensemble i soprani Lucia Bianchi e Elena Licciardello, Camilla Masin (flauto), Matteo Brusaferro (clarinetto), Jacopo Borin (sax), Domenico Nicola Percetti, Giorgio Romani e Emma Berto (violini), Andrea Bortoletto (viola), Caterina Colelli e Kiara Kilianska (violoncello), Paolo Iseppi (contrabbasso), Pietro Vaccari (pianoforte) e Alberto Zongaro (percussioni).

Sempre dalla consultazione del catalogo della discoteca di Pasolini nasce l’impaginato del concerto di domenica 13 novembre, Il violoncello da Bach a Brahms, incentrato sull’ampia Sonata in mi minore op. 38 (1862-1865) nella quale – per dirla parafrasando le parole di Pasolini – la “ricaduta del solito invincibile suono amoroso disperatamente accorato” di Johannes Brahms oltre a rimandare la memoria alla famiglia Schumann va, presumibilmente, in primis al pensiero verso la madre scomparsa il 2 febbraio 1865. Brahms attinge forza e consolazione, tornando alle parole di Pasolini, nella “immediata risposta del suono sacro che si conclude con una dolcezza rassegnata e altissima”, ovvero l’emergere sia nel primo che nell’ultimo movimento di due contrappunti tratti dall’Arte della Fuga di Bach. Anche per questo l’ampia composizione brahmsiana è incastonata tra i due preludi-corali, sempre nella trascrizione per violoncello e pianoforte, Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ BWV 639 di Bach e O Welt, ich muß dich lassen op. 122 n. 3, testamento spirituale e ultimo lavoro di Brahms, originariamente destinati all’organo. Protagonisti del concerto il violoncellista Luca Talassi e la pianista He Qing.

Dal catalogo bachiano si dipana, con l’aria Bist du bei mir BWV 508, anche l’appuntamento Da Bach ai folk songs di domenica 20 novembre che ha come protagonista il Venezze Sax&Drums Quintet formato da Marco Brusaferro (sax soprano), Nicola Cecchetto (sax contralto), Davide Periotto (sax tenore), Jacopo Borin (sax baritono) e Alberto Zongaro (percussioni). Siamo, ancora una volta nel corso della nostra rassegna, in presenza di una trascrizione, ma ogni opera musicale è di fatto, ad ogni esecuzione, una continua rivisitazione del testo, così come la sua collocazione in contesti diversi, nel nostro caso i film di Pasolini, conferisce ai lavori, in particolare di Bach, uno spessore ancora più forte e drammatico. E questo gesto Pasolini lo compirà, forse al massimo grado di espressione, con la villotta friulana Stelutis alpinis utilizzata in Salò o le 120 giornate di Sodoma al momento culminante del film, una sorta di catarsi dalle nefandezze non solo della pellicola ma di tutto il mondo, che troveranno di lì a poco un ultimo, brutale, compimento nell’assassinio dello stesso Pier Paolo il 2 novembre 1975.

Le musiche popolari, che costituiscono un significativo comparto della collezione discografica pasoliniana, si snodano anche nei rimanenti brani in programma, una suite da West Side Story di Leonard Bernstein e Amunì, “libera reinterpretazione della musica per banda siciliana” del giovane compositore Antonio Ministeri diplomato al Venezze.

L’ottavo e ultimo appuntamento di Musica e Poesia 2022, Ricercar la Musica vivente in programma domenica 27 novembre, connota da un lato il disimpegno e l’ironia di Camille Saint-Saëns il cui celebre “bestiario” Le carnaval des animaux (1886) descrive “gesti” compositivi ed esecutivi che possono apparire come vere e proprie scherzose immagini della laboriosità dei musicisti, accompagnato dal divieto di esecuzione integrale fino alla sua scomparsa che, avvenuta nel 1922, porterà l’opera alla ribalta quando l’avvenuta apocalisse della Grande Guerra e ombre ancora peggiori che si stavano addensando all’orizzonte dell’intera umanità, lo resero un divertissement decisamente fuori dal clima di fine Ottocento in cui esso era stato creato. Analogamente il Concerto in do maggiore per pianoforte e archi K 415 di Mozart (presente nella fonoteca pasoliniana) rappresentava, sei anni prima dell’esplosione della Rivoluzione francese, un raro esempio di equilibri formali in cui contemplare, per pochi anni ancora, l’ideale Bellezza del XVIII secolo, ma con già insito in sé quel movimento che – secondo le parole di Pasolini – “fa rivibrare quel dolore, quel problema, quell’anelito” che in fondo caratterizzano ogni elevata ed autentica opera d’arte, anche pura e cristallina, rendendola “vivente” espressione dell’Umanità.

Interpreti del concerto i pianisti Carlo Alberto Bacchi, Marina Miani, Gianfranco Munafò e Stefano Rizzato con Domenico Nicola Percetti e Alessandro Pelizzo (violini), Andrea Bortoletto (viola), Alessia Bruno (violoncello), Alessandro Leone (contrabbasso), Matteo Brusaferro (clarinetto) e Alberto Zongaro (percussioni).

[Il Coordinamento Kammermusik del Conservatorio Francesco Venezze:

Anna Bellagamba, Daniela Borgato, Raffaele Deluca, Giuseppe Fagnocchi,
Federico Guglielmo]